

Caro Volontariato,
ti scrivo ora, in un momento particolare della mia vita, anche se in realtà la vita forse è fatta di momenti particolari. Da tempo avrei voluto prendere carta e penna, perché ho tante cosette da dirti e ora ne ho l’opportunità. Stai tranquillo: nessun rimprovero.
Non ti chiedo informazioni su di te, perché in verità tu sei una parte di me e dunque … sto scrivendo un po’ a me stessa. Sei entrato in me in modo ufficiale quando frequentavo il Liceo: ricordi che andavamo alla casa di riposo di via Gleno di sabato, ad imboccare gli anziani? Mi facevi compagnia, soprattutto sull’ascensore, che mi terrorizzava: facevamo un sospiro di sollievo, quando le porte finalmente si riaprivano!
Poi l’Università mi ha portato a Milano, ma tu sei venuto con me: mi veniva spontaneo aiutare chi era in difficoltà nello studio o pulire casa per le mie amiche un po’ sfaticate. So che eri tu a non farmi pesare nulla. A chi mi diceva: “Perché devi sempre sacrificarti tu?” non ho mai dato una risposta lucida. Era così e basta! Quale sacrificio?
Crescendo, ne abbiamo passate tante insieme. Ricordo con particolare tenerezza quando facevamo sorridere la zia in fin di vita o la nonna, ascoltando con lei la mitica RADIO MARIA. Nel momento in cui se ne sono andate, salendo al Cielo, mi hai dato un suggerimento: come una vocina del cuore hai cominciato a sussurrare, a farti sentire, poi a parlare e infine a urlare. Ci ho messo un po’ a sentirti: scusa, sai, ma ero tanto impegnata. Come se adesso non lo fossi! Dici che era solo una scusa? Tanto sapevo che tu eri lì e non te ne andavi …
Alla fine, furbastro, mi hai fatto trovare su un libretto del Centro Servizi Volontariato il numero di un’Associazione. “Che cavolo è?” mi sono chiesta incuriosita. Abbiamo telefonato e, segretamente (lo sapevamo io e te), ci siamo tuffati in un’avventura nuova. Tanto l’entusiasmo, tanti i dubbi, tanto il desiderio di dare amore. Si, me lo hai detto tu; quando ti ho chiesto perché facevamo questo, mi hai risposto così: “Abbiamo bisogno di dare a qualcuno tutto l’affetto e la voglia di vivere che ci caratterizzano”. Avevi ragione. In realtà poi ci siamo corretti, perché ci siamo accorti che, dandolo, l’affetto cresceva: ne ricevevamo il doppio!
Dunque ci si è accesa una lampadina: perché non coinvolgere altri? Così a scuola siamo diventati referenti per queste attività: seguiamo tanti ragazzi, condividiamo con loro interi pomeriggi di volontariato e siamo felici di vederli felici.
Da circa vent’anni ormai ci conosciamo io e te e ci frequentiamo assiduamente, tutte le settimane: per più di quindici siamo stati a contatto con i bambini della pediatria presso l’Ospedale Papa Giovanni XXIII (prima presso gli Ospedali Riuniti); da qualche anno siamo entrati in AVO e operiamo nel reparto di neurologia, un reparto “tosto”, come direbbero i miei studenti, ma bellissimo da esplorare e molto ricco umanamente, in cui abbiamo accettato con piacere di entrare quando la presidente PIERA VITALI ci ha chiesto di farlo in modo un po’ pionieristico, visto che il reparto era rimasto scoperto.
Oggi, come sai, ho 45 anni e sono una docente di lettere: amo la lingua e la letteratura greca e latina, amo il mio lavoro e i mei studenti e ho moltissimi interessi, come il teatro, la piscina, il canto, la parrocchia. Sono molto impegnata con il mio lavoro e non solo, perché mi piacciono le sfide, mi piacciono le cose nuove e amo mettere a frutto i talenti che Qualcuno mi ha dato, quando posso farlo.
Ma allora perché ho scelto anche te? Forse perché sei proprio tu che dai sapore e senso a tutto il resto. Forse perché amo la vita, come dici tu, come ci eravamo detti venti anni fa, e sono convinta che il tempo per te si trovi, se si vuole: siamo noi che gestiamo il tempo e non il tempo che gestisce noi. Dunque non è impossibile destinare uno spazio alla costruzione di relazioni, pur in una vita ricca e piena di impegni: tutto ciò che facciamo per amore non è tempo perso, ma occasione per crescere, tempo per noi, tempo arricchente.
E tu, caro volontariato, sei essenzialmente relazione. “Cosa fai, quando vai in reparto?”: è una domanda frequente che mi sono sentita e mi sento rivolgere. Non credo si tratti di FARE, ma di ESSERCI: il volontario c’è, è una presenza leggera, una presenza terza, che non è un parente, emotivamente coinvolto, non è un medico, professionalmente impegnato, ma un terzo, lì per il paziente, lì per ascoltare, lì per esserci, lì per tessere legami e relazioni. Talvolta, è vero, si dà una mano per i pasti, si accompagna qualcuno che non deambula, si gioca, si legge … ma per lo più si ascolta, si parla, si osserva, si guarda, si comunica, anche con un sorriso, anche con il silenzio.
Dimmi se sbaglio, ma con gli anni ho imparato che non si fa il volontario, ma si è volontario: quello del volontario è un modo di essere, non un modo di fare, è un atteggiamento, un habitus, che uno indossa sempre, non solo nelle tre ore che trascorre in reparto. Essere volontario significa essere attento all’altro, ma anche essere attento a te stesso, dedicare qualcosa all’altro, ma anche a te stesso, significa voler bene all’altro, ma anche a te stesso. Il volontario incontra dei bisogni, ma riceve pure aiuti, senza sapere di esserne alla ricerca. Il volontario sa entrare in empatia e sa tenere le distanze: non si fa coinvolgere e travolgere da ciò che incontra. Fa suo ciò che può essere suo, senza impoverire gli altri, e regala ciò che ha di suo, senza privarsi di nulla. Essere volontario non significa essere triste e incontrare persone tristi, stereotipo comune; anzi, significa essere persone entusiaste della vita e con la voglia di comunicare entusiasmo, incontrando persone talvolta fragili, talvolta forti, comunque con una grande dignità, che ha molto da insegnare.
La mia vita, come sai, è segnata dall’orologio: a scuola, quando lavoro, suona la campanella ogni sessanta minuti; i pomeriggi trascorrono tra lezioni, riunioni, aggiornamenti, correzioni, lavori da preparare, coro, palestra, pulizie domestiche e faccende di casa, visite al papà, appuntamenti, tutto rigorosamente con i minuti contati. Non dico di essere tempo dipendente, ma poco ci manca: di sicuro precisa, puntuale, forse un po’ rigida. In reparto no, con te no: il tempo è più lento, non scappa; in tre ore puoi fare poco o tanto, niente o troppo … in tre ore ci sei, sei lì… sei lì per incontrare l’altro.
Mi raccomando di non lasciarmi, di stare dove sei, dentro di me, così, in modo molto naturale. Sono piccola e minuta, ma credo che tu sia comodo lì dentro.
Ciao e grazie
Margherita Ianniello
Volontaria AVO Bergamo, Ospedale Papa Giovanni XXIII
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